[DISEGNATORI] AURELIO GALLEPPINI

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    Aurelio Galleppini (Casal di Pari, 28 agosto 1917 – Chiavari, 10 marzo 1994) è stato un autore di fumetti italiano, noto con lo pseudonimo di Galep.

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    La sua carriera è indelebilmente legata al nome di Tex Willer da lui realizzato graficamente e di cui è stato per più di 40 anni uno dei principali disegnatori.


    Gli inizi

    Nato da genitori sardi, inizia collaborando a produzioni animate realizzate per il mercato tedesco. Il suo primo lavoro nell'ambito fumettistico viene pubblicato nel 1936, sulla rivista Mondo Fanciullo. Passa poi alla Mondadori per la quale disegna due storie scritte da Federico Pedrocchi: Pino il Mozzo e La perla del mar d’Oman.
    Nel 1940 si trasferisce a Firenze ed inizia la sua collaborazione con L'Avventuroso dell'editore Nerbini per cui realizza diverse storie occupandosi in alcuni casi anche della sceneggiatura (La leggenda dei Rugi, La conquista dell’Atlantico, I conquistatori di oceani).
    Interrompe per alcuni anni l'attività per dedicarsi alla pittura, per poi riprenderla nel 1947, quando inizia a collaborare con gli Albi dell'Intrepido della Casa Editrice Universo. Realizza contemporaneamente anche le illustrazioni per alcuni classici della letteratura I Tre Moschettieri, La Maschera di Ferro, Le Mille e una Notte, Il Barone di Münchhausen I Promessi Sposi. Sempre nello stesso anno torna alla Nerbini per disegnare una versione a fumetti del Pinocchio di Carlo Collodi.
    Il 1948 è un anno cruciale per la sua carriera: viene infatti chiamato da Tea Bonelli, delle Edizioni Audace (la casa editrice che in seguito diverrà la Sergio Bonelli Editore), per realizzare due nuovi personaggi creati da suo marito Gian Luigi Bonelli: Occhio Cupo e Tex.
    Mentre il primo verrà rapidamente dimenticato, il secondo gli regalerà la consacrazione definitiva. Il successo inizialmente è inaspettato proprio agli stessi autori, che avevano riposto le proprie speranze in capo all'altro personaggio (realizzato in un'innovativo formato ad albo, prototipo del classico formato Bonelli, che consentirà a Galep di esprimere il meglio di se attraverso un disegno dinamicissimo ed estremamente accurato, di gran lunga superiore agli standard dell'epoca). Ciò nonostante dalla prima striscia intitolata Il totem misterioso (edita il 30 settembre 1948) al successivo formato ad albi, Tex si confermerà uno dei fenomeni editoriale del settore.
    Negli anni ciquanta realizza le copertine della serie Le Avventure del West sempre per le Edizioni Audace.
    Nel 1977 uscì, sulla collana Un Uomo, Un'Avventura ancora per la Bonelli (che allora si chiamava Edizioni Cepim ), uno dei rari lavori di Galep non legati al ranger, ovvero L'Uomo del Texas la cui sceneggiatura fu opera di Guido Nolitta.
    Aurelio Galleppini morirà a Chiavari il 10 marzo del 1994. Aveva da poco iniziato a realizare le prime tavole (rimaste inedite) per un nuova storia di Tex.

    Galleppini e Tex

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    Autoritratto con Tex


    Galleppini ha realizzato moltissime storie di Tex, parecchie delle quali ormai considerate dei classici, e dato un volto non solo al protagonista, ma anche a quasi tutti i principali comprimari.
    A proposito delle fattezze del viso di Tex, Galep sembra che si ispirò inizialmente a quelle dell'attore Gary Cooper, per poi prendere a modello se stesso.


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    Va detto che Galleppini disegnava regolarmente il volto di Tex anche nelle storie rese graficamente da Virgilio Muzzi.
    Ben presto il suo lavoro è stato affiancato da altri grandi professionisti coi quali si è alternato nella realizzazione degli albi. Nonostante questo il "suo" Tex è rimasto sempre immediatamente riconoscibile a prima vista dai lettori assidui e i suoi disegni restano ancora tra i più apprezzati in assoluto.
    È stato anche l'autore di tutte le copertine fino al numero 400, attività che è stata interrotta solo poco prima della sua scomparsa. Comprendedo anche tutte quelle delle altre serie di Tex e degli albi fuori serie Galep ha realizzato quasi duemila copertine per il personaggio, "forse un piccolo record", diceva, di cui andava molto orgoglioso.


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    Grazie Shagrath! Galep è sempre stato il mio mito!!! Con i suoi disegni ho iniziato a leggere Tex, e quando è morto mi ricordo che piansi, pensando che Tex non sarebbe più stato lo stesso!
     
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    Intervista del 1977

    In quella occasione il critico e saggista Gianni Brunoro intervistò a lungo e approfonditamente l’artista toccando molti aspetti umani e professionali.
    La trascrizione che ne segue (corredata da diverse immagini presenti) è la più fedele possibile.
    Con qualche correzione laddove si ravvisasse la presenza di refusi di stampa




    Intervista a
    Aurelio GALLEPPINI
    di G. BRUNORO


    Brunoro - Galleppini, mi risponda così di brutto, come le viene spontaneo, senza troppo pensarci sopra: ci sono tanti disegnatori che finiscono per odiare il loro personaggio. Lei, il Tex lo ama o lo odia?
    Galleppini - Mah, io non lo amo né lo odio ... Certo che il Tex mi ha rovinato la mano, sa ...
    B – Sì, io credo che un'attività di routine finisca fatalmente per sortire quest'effetto.
    G - Sì, fare lo stesso personaggio, la stessa cosa, è un po’ fossilizzante. Infatti il mio culmine è arrivato nel 1948.
    B - Beh, sì anche per me ci sono certi suoi racconti molto belli. Ero ragazzetto, a quel tempo, e i più bei racconti suoi che ricordo sono quelli degli albi dell'Intrepido. Ce n'erano certi in costume, altri in ambiente della foresta ...
    G - Beh, era una serie commerciale e mi pagavano talmente basso, una miseria, che non ci si campava ... Sono anche tirati via ...
    B - Ma credo che nessuno di noi si scandalizzi per questo. Però con Tex le cose sono andate diversamente.
    G - Sì, da quel lato lì devo dire che Sergio Bonelli mi ha rivalutato dal lato finanziario. Mentre invece Tex non ha fatto altrettanto dal lato artistico: perché con Tex ho chiuso la mano. In quel periodo avevo ancora una mano pittorica acquistata nell'attività (fatta per alcune mostre di pittura), quindi allora ero proprio un illustratore.
    B - Queste mostre, di che anni erano?
    G - Del 1945, due personali e alcune collettive.
    B - Lei quanti anni ha? Cioè quanti ne aveva a quel tempo?
    G - Io sono del 1917.
    B - Quindi aveva 28 anni.
    G - Sì, uscivo dalla guerra. Avevo avuto un periodo di stasi, però è stato buono perché ho avuto un intervallo del periodo illustrativo, da fumettaro, diciamo. e quindi ho ricominciato la pittura, ho ripreso col disegno dal vero e poi mi son dato ai fumetti, alle pubblicazioni e poi ancora ho lasciato i disegni dal vero, dove avevo approfondito l'anatomia. Quando è finita la guerra c'era stato un intervallo dal periodo che lavoravo nei fumetti e quindi la mano era già predisposta a imparare una nuova tecnica perciò mi son dato alla pittura per la prima volta. Alla pittura vera e propria, perché io fino ad allora avevo fatto disegni dal vero in bianco e nero, ma pittura no. Quindi ho avuto la fortuna di conoscere in Sardegna un grande pittore, che è un ritrattista ...
    B - Cioè lei non proviene da una scuola, in sostanza.
    G - No, no, sono un autodidatta completo. Vede, (e fa vedere un libro di pittura) questo pittore quì, Fantini, è un famoso ritrattista. Si vede già dai suoi disegni che è portato per il ritratto. Io fui introdotto nell'ambiente letterario di Cagliari dal poeta prof. Marcello Serra. Del pittore Fantini sono stato, e lo sono ancora, un buon amico. Ho imparato molto dalla sua tecnica, ma non ho preso mai lezioni dirette da lui.
    B - Lei è sardo di origine?
    G - L'origine dei Galleppini è romagnola da parte dei miei antenati. Però i miei genitori erano sardi, io sono nato per combinazione in Toscana e portato poi in Sardegna dove ho trascorso la mia gioventù. Quindi sono sardo di formazione e nell'ambiente sardo sono stato aiutato riguardo alla pittura, perché sono stato introdotto nell'ambiente letterario da questo Marcello Serra, che era un amico intimo del poeta Alfonso Gatto, e che fece anche un libro sulla Sardegna. Incoraggiato da costoro, ho cominciato la pittura da zero, capisce? Già però con un abilità grafica compiuta. E quindi, influenzato da questo pittore, nella spazio di pochi mesi sono diventato pronto a lavori più maturi.
    B – Aveva delle doti naturali, insomma, che col tempo si sono subito affinate.
    G – Sì, la pittura mi ha molto aiutato, ho cambiato completamente stile. Cioè, divenni un pittore e a Cagliari mi conoscevano come tale, ormai.
    B – Poi è venuto a Milano?
    G – Sì, la pittura, lei sa com’è … non ci si vive tanto …
    B – Beh, neanche oggi, se è per quello …
    G – Inoltre avevo preso nella pittura un certo indirizzo che non andava più bene per i nostri tempi. Sa, oggi ci sono altri indirizzi in pittura, anche la critica mi riconosceva che mi ero formato alla fine dell’800, primi del ‘900 e quindi ho capito che con la pittura non avrei mai sfondato. Ma soprattutto avevo dentro di me quella smania … Insomma ero un illustratore e un disegnatore di fumetti nato, quindi appena è stato possibile, e hanno riaperto le frontiere, diciamo, con il Continente (perché nel Continente si combatteva quando facevo ancora le mostre) ho riallacciato subito con Nerbini e con l’Intrepido e sono scappato dalla Sardegna. Perché là mi vergognavo, mi avevano dato l’insegnamento per le scuole medie, una era la Scuola Industriale e l’altra era l’Istituto dei Salesiani, che corrisponde a quello che oggi è il Liceo. Insegnavo disegno nelle scuole, e non potevo quindi anche fare i fumetti a Cagliari. In seguito, sì, mi hanno riconosciuto, mi hanno anche fatto delle recensioni, ma in quel momento lì c’era da vergognarsi a fare dei fumetti.
    B – Lei un momento fa ha detto che in sostanza il fumetto ce l’aveva nel sangue. Lei li aveva già letti da ragazzetto i fumetti?
    G – Gli unici fumetti che ho letto sono stati quelli di Gordon. Io prima di Gordon non avevo visto altro.
    B – Sa cosa diceva qualche tempo fa Guido Buzzelli? Suppongo che lo conosce vero?
    G – Sì, sì, lo apprezzo anche molto …
    B – Ecco, si parlava, si scherzava, e lui ha detto parlando del loro mestiere di disegnatori: “In fin dei conti noi siamo tutti figli di Flash Gordon”.
    G – Sì, infatti, Raymond era un maestro. Ho cominciato anche io i fumetti avendo visto Gordon. Però io ho fatto delle storie, diciamo, non a fumetti, chiamiamole racconti illustrati, quelli di Modellina. Non avevo visto niente di roba di fumetti. Anzi io ho cominciato a lavorare nei giornaletti con uno stile tutto particolare, da cartoni animati, perché le prime cose che avevo visto erano quelle dei cartoni animati di Topolino … Ma io in Sardegna non li avevo visti, in Sardegna i primi tempi non arrivavano nemmeno quelli di Alex Raymond.



    B – E quindi questi suoi primi lavori li ha disegnati per istinto …
    G – Sì, mi avevan detto di fare dei disegni veristici. Io la figura non la avevo ancora studiata. Io avevo copiato dal vero parecchio, avevo copiato paesaggi. Lì c’è qualche figurina che passa, qualche omino stilizzato, ma non avevo, diciamo, una competenza in fatto di anatomia … I miei studi sono un titolo di scuola media commerciale e due anni di Istituto Industriale.
    B – Torniamo al suo lavoro. Dopo questa collaborazione con Modellina cosa è venuto?
    G – Dopo Modellina ho lavorato ai primi fumetti e i primi fumetti fatti da me sono stati quelli per la Mondadori, cioè con l’API. L’API mi aveva accalappiato con un contratto di quelli, sa … fasulli. Io ero un ragazzo, tanto è vero che passati tre mesi io non avevo visto un lavoro della Mondadori. Perché non c’era una clausola dove loro si impegnavano a darmi lavoro immediato. Tanto è vero che ho dovuto troncare con Modellina. E c’erano delle penalità anche gravi!
    B – E loro non le affidavano del lavoro?
    G – No! Però io andai da Pedrocchi, che per me fu proprio un consigliere, un amico, è stato il primo che mi ha introdotto nel ramo dei fumetti, fumetti veri e propri, perché gli altri sono racconti, illustrati come fumetti, però non c’era il balloon.
    B – C’era la didascalia sotto …
    G – Sì, e poi c’era anche uno stile ibrido … Invece Pedrocchi si è preso a cuore questa situazione e d’accordo con l’API mi fece lavorare per Civita, tramite le sorelle Finzi. Roba di fumetti che tutti conoscono, credo anche voi …
    B – Noi lo conosciamo, credo, un pochettino di riflesso perché è materiale anteguerra. C’è Ezio Ferraro di Padova che sa tutte queste cose, le ha scritte tutte lui per primo, in sostanza.
    G – Civita è stato un grande editore dell’Argentina, il quale a un certo punto ha cercato di accaparrarsi tutti quanti i disegnatori. Da lui ci son passati tutti, Molino, Albertarelli, tutti quanti. Tutto materiale che andava pubblicato prima in Argentina, e poi lo ripubblicava Topolino in Italia.

    B – Quindi questo suo inizio a quando risale pressappoco?
    G – Al 1939/40, con soggettista Pedrocchi. Il quale mi ha fatto proprio una scuola del fumetto, mi faceva fare i disegni a matita, me li correggeva lui, io portavo le correzioni secondo le sue indicazioni, poi i miei disegni andavano in Argentina da Civita. Civita riportava le sue correzioni e i disegni tornavano da me. Io li correggevo e li davo nuovamente alle sorelle Finzi per l’inoltro. E quando finalmente mi tornavano col benestare, li ripassavo col pennello. Poi se c’era ancora qualche correzione si ritoccava ancora … e tutto questo per 250 lire, a quei tempi.
    B – Ma questa era un po’ anche la trafila degli altri disegnatori, suppongo.
    G – Mah, forse Molino e altri no, perché erano molto più bravi di me, io cominciavo allora … Civita e Pedrocchi erano molto pignoli. Per me Pedrocchi è un po’ l’apice dei soggettisti italiani.



    B – In quel tempo, quali altri disegnatori suoi coetanei lavoravano lì?
    G – Lavoravano Caesar, Canale, Molino. Albertarelli già aveva lavorato prima. Aveva infatti già ceduto la storia a Molino (evidentemente Kit Carson n.d.r.). Poi sono entrato io a lavorare per Civita, e mi hanno accolto bene. Infatti in quel periodo apparivano i racconti di Albertarelli, di Canale. Albertarelli aveva fatto Faust.
    B – Sì, è materiale che conosciamo …
    G – Io mi sono formato in quel periodo. Ho fatto quelle due famose storie, di “Pino il mozzo” e “Le perle del Mar d’Oman”.
    B – Quindi Lei, in quel periodo, ha lavorato solo per l’API.
    G – Solo per l’API, ma avevo dei contatti anche con L’Intrepido, che però ho dovuto smettere per via di questa esclusiva.
    B – Quindi andiamo grosso modo fino all’inizio del 1942 …





    G – Sì, infatti ero sotto le armi. A Milano, pur facendo il militare, ho finito quelle storie, “Le perle del Mar d’Oman”, etc. Lei sa che il militare a quei tempi non era come adesso: mi hanno chiesto cosa sapevo fare, il titolo di studio, etc. Ho detto il disegnatore: e allora ti mandiamo tutto al contrario e finii all’autoreparto. Da una parte è stato un bene, perché da tutta questa storia, a un certo punto mi sono accorto che dietro c’erano tutti camions scassati che non servivano più, e quelli erano diventati il mio studio. Costruì una tavoletta, che mettevo sul volante di questi camions, e continuavo a fare “Le perle del Mar d’Oman”, poi non solo, dato che ero in aviazione, facendomi amici i sergenti, i marescialli piloti, eccetera, mi hanno fatto salire sugli aerei di quel tempo e io riportavo tutti i dettagli, roba da spionaggio insomma. Io mi copiavo dal vero tutti i cruscotti di quegli aeroplani, ho lavorato e finito quelle storie. Poi mi hanno congedato, sono andato a Cagliari e lì ho trovato già la cartolina del richiamo e quindi non ho fatto nemmeno in tempo a partire. E questa volta sono rimasto in Sardegna.
    B – E’ rimasto in Sardegna fino alla fine della guerra?
    G – No, nel 1942 sono stato congedato perché era morto mio fratello nella battaglia di capo Matapan, in marina. Allora, una circolare del fascismo diceva che tutti i fratelli dei caduti dovevano esser messi in congedo provvisorio e io ho avuto così la disgrazia o la fortuna di essere uno dei pochi disegnatori disponibili in quel momento e sono andato a Firenze.
    B – Il contratto con l’API era decaduto?
    G – Sì, era decaduto.
    B – Quindi lei è andato in cerca di lavoro a Firenze, da Nerbini.
    G – Sì da Nerbini e anche con L’Intrepido. E ho avuto un anno di intensa attività; poi, ai primi del ’43 mi hanno di nuovo richiamato sotto le armi. In quel periodo ero quindi a Firenze in borghese e c’era una fame terribile per il fatto delle tessere, l’unica carne che si mangiava erano i rognoni, una volta ogni 15 giorni. Una fame terribile ma un lavoro intenso tanto è vero che mi meraviglio di aver fatto tanta roba. Facevo anche lo sceneggiatore, poi morì il povero Toppi e come uno dei pochi disegnatori disponibili, ho fatto io. In quel periodo feci “Per la Patria” e credo di esser stato, insieme con Caesar, l’unico disegnatore a iniziar storie di guerra, ma purtroppo le mie storie non vengono pubblicate perché parlano di Stukas, di tedeschi, di tutta quella roba lì. Ma se lei ricorda, la tecnica è quella che usano adesso.
    B – “Per la Patria” non era sui giornali, sull’Avventuroso, ma negli Albi della Gloria ... O no?
    G – No, prima sul giornale poi ne fecero degli albi. Ma erano storie fatte con quella tecnica, con quelli scorci particolari, ci servivamo del materiale dal vivo e io per giunta, che ero stato sotto le armi, lo avevo visto e quindi quando dovevo disegnare aeroplani chi meglio di me poteva farlo, e di Caesar, che anche lui era in aviazione, che sugli aeroplani ci vivevamo, avevamo fatto i voli? Mi ero fatto amici tutti gli ufficiali piloti, che mi hanno portato anche in volo, quindi sapevo tutto di quegli aeroplani.




    B – E poi è stato richiamato di nuovo?
    G – Sì, sono stato richiamato ai primi del ’43 e lì ho fatto tutta l’altra parte della guerra fino alla fine.
    B – E quindi arriviamo fino al 1945. E con la fine della guerra, come ha ripreso l’attività?
    G – Beh … subito mi son messo a fare il pittore. Per campare mi son messo a fare i souvenirs per gli americani. Cagliari era distrutta completamente. C’ero io e mio cognato. Lui era un bravo artigiano sapeva fare dei lavori manuali e quindi lui mi andava a prendere le mattonelle nelle case distrutte – con le persiane faceva le cornici a queste mattonelle – e io dipingevo scenette folcloristiche che vendevo agli americani. A quel tempo avevo un paccone di am-lire. Quindi ero “ricco”. Poi invece quando Cagliari si è ripresa, è cominciata a venire la gente, si sono sviluppate delle attività, anche intellettuali, e allora lì ho fatto anche della pittura vera e propria e come le ho detto, ho fatto il pittore. Lì ero conosciuto come pittore, cartellonista, pubblicitario.
    B – E quindi, il nuovo contatto col mondo dei fumetti, come è venuto?
    G – Appena hanno riaperto le comunicazioni col continente, nel 1946.
    B – E lei sentiva questo desiderio di riprendere …
    G – Eccome no! Io i fumetti me li facevo per conto mio perché, guardi, a Cagliari ho fatto di tutto. Ho fatto il pittore, il cartellonista, la pubblicità nei giornali, il Direttore artistico di un quotidiano, poi ho fatto scenografia e sceneggiatura …
    B – Per teatri …
    G – Sì, per teatri locali. Scenografia … ma, era la prima volta che dipingevo, dipingevo in uno scantinato enorme queste scenografie, che poi dovevano venire usate per questi spettacoli, poi ho dipinto una cappella che c’è ancora a Cagliari, ho fatto di tutto insomma. Forse ho fatto troppo e male …
    B – No, mi pare anzi che questo documenti un grande arco di interessi.
    G – Ma dentro di me sentivo questa grande nostalgia dei fumetti, dei giornali, di tutte quelle cose lì … infatti appena hanno riaperto le frontiere, io ho subito riallacciato con Nerbini, con L’Intrepido, che mi ha mandato subito quella caterva da fare (che mi han pagato quasi niente). Nerbini invece in quel periodo lì mio ha proprio aiutato. Mi ha fatto andare a Firenze. Ho anche delle lettere dove risulta che mi reputava uno dei maggiori disegnatori.
    B – Se non sbaglio, in quel periodo Lei ha fatto qualche Mandrake spurio …
    G – Sì, sì, ma quella era proprio la fine della collaborazione con Nerbini. Però prima del Mandrake ho fatto per Nerbini molta attività illustrativa, libri, molti libri.



    B – Che libri?
    G – Tutta roba popolare. “La maschera di ferro”, “Cyrano di Bergerac”, ma lì mi sono cimentato perché avevo la mano fresca, fresca del pittore e vedrà delle illustrazioni che sembrano delle incisioni e invece sono state fatte col pennino, ma sembrano acqueforti e mettevo in pratica quello che avevo imparato come pittore. Infatti mi sentivo molto illustratore. Poi ho ripreso il fumetto.



    B – E con l’Intrepido?
    G – Facevo solo degli albi. E una, due storie sul giornale, ma corte. Ma non ci dedicavo molto tempo, li facevo male, molto in fretta perché li consideravo una cosa necessaria per vivere. Invece per Nerbini no. Facevo molto di più di quel che mi pagava perché effettivamente era un lavoro che mi piaceva, quello dei libri, dei giornali. Ho tentato in quel periodo anche la mezzatinta appunto perché era la moda del Grand Hotel, e anche io ho fatto una storia di quel genere per il giornale Mistero.
    B – E il contatto con l’editore Bonelli?
    G – Beh, guardi, glielo dico subito. E’ venuto per forza maggiore, dato che Nerbini stava per chiudere.
    B – Quindi è stata, da parte sua, una ricerca di lavoro.
    G – Eh, già! Ho capito che lì, quando mi ha ridotto a copiare Mandrake, avevo finito. Libri non ne stampava più, perché non aveva più i mezzi … Insomma era il fallimento. Sa, ho un buon ricordo di Nerbini. I Nerbini erano brava gente, bisogna riconoscerlo. Erano generosi. Comunque è la loro generosità che li ha rovinati. Tutti andavano lì e mangiavano. In quel periodo ho allacciato i rapporti di collaborazione con la signora Bonelli e ho fatto prima quegli albi che ora ha ristampato l’EGA, poi “Gli schiavi della Mezzaluna”, poi quella serie di “Occhio Cupo” e poi mi ha scritto che avrebbe avuto piacere di conoscermi.
    B – E perché Lei, il lavoro continuava a farlo a Firenze? …
    G – No, io ero a Cagliari in quel periodo.
    B – Era la signora Bonelli che teneva un po’ le redini commerciali della casa?
    G – Sì, sì era lei. Sergio Bonelli era piccolo. Allora mi son deciso ad andare a Milano e da lì è cominciato il Tex e Occhio Cupo, alla cui creazione ho collaborato fattivamente.
    B – Nel mettere a punto il personaggio?
    G – Sì, si usava fare un menabò ritagliando da giornaletti vecchi. Il Tex è nato così. Ho tagliato tutti i fumetti – mi pare di Molino – e questo è stato sottoposto al marito, a Gian Luigi Bonelli, perché lo riteneva il miglior soggettista del momento. Bonelli creò il nome, la storia e mandò la prima puntata di Tex e io passai all’illustrazione del giornale e nello stesso tempo però gli studiai anche Occhio Cupo. Ma di Occhio Cupo se ne sono stampati pochi numeri perché era un giornaletto che costava un po’ caro per quei tempi; e poi non veniva venduto molto, perché nel dopoguerra c’era ancora quel pregiudizio – sia degli insegnanti che dei genitori – che il fumetto era una cosa nociva. Quindi un giornaletto grande come Occhio Cupo non aveva attecchito tanto, credo che fosse lì sul limite, che ci si rifaceva le spese. Invece quel che ha attecchito è stato proprio il Tex contro ogni previsione. Forse perché era stato fatto a quel formato.
    B – In effetti, c’è stato proprio quel periodo, che nell’arco di pochissimi mesi quel formato a striscia ha incontrato un grosso successo.
    G – E’ stato così, l’aveva inventato quel tale dobbiamo dargli il merito che aveva fatto il Piccolo Sceriffo e subito io glielo ho imitato perché avevo saputo che per fare questo libretto, l’editore dava a stampare al tipografo un album intero che poi tagliato diveniva tre albi e poi lo passavano all’allestimento. Quindi con la spesa di un albo ne facevano tre. E’ stata una trovata commerciale. Io di giorno mi occupavo di Occhio Cupo, a fare delle storie disegnate con cura, invece il Tex non l’avevo studiato neanche come personaggio, immagini che li disegnavo senza nemmeno fare la matita. Lavoravo in uno studio insieme a un disegnatore. Io non avevo posto, questo mi dava la camera, mi faceva dormire insieme a lui e allora gli davo la scrittura dei fumetti, quindi c’era un reciproco interesse.
    B – E quindi in sostanza, in quel periodo, Lei di giorno faceva le cose curate e di sera tirava un po’ via …
    G – Sì, dopo cena io cominciavo il Tex e andavo avanti fino alle cinque del mattino. Facevo delle tirate di lavoro e poi quando mi han detto che il Tex andava bene mi sono accorto che lo avevo realizzato con una incompetenza assoluta del West. Le prime pistole di Tex sono inventate. Tex era una cosa ibrida tra il personaggio originale e Gary Cooper, Randolph Scott, che erano molto alla moda a quei tempi. E quindi non l’avevo studiato bene, perciò piano piano si è trasformato col tempo, perché abbiamo cercato di portare le modifiche a quelle pecche lì, perché poi mi sono accorto che il disegno dei calzoni, tutto tratteggiato, non andava bene in un personaggio che doveva ripetersi magari in una scena scura di notte, bisognava trasformarlo, farlo più essenziale. Poi non parliamo di quando sono subentrati altri disegnatori. Nell’ultima parte dove addirittura io ho dovuto adattarmi agli altri disegnatori, perché loro non si adattavano a me e allora è toccato a me altrimenti c’era uno stacco troppo forte.



    B – Chi sono questi altri disegnatori?
    G – Il primo che mi ha aiutato, in un primo momento che mi ero ammalato, è stato Uggeri, che poi è sparito …
    B – Quando?
    G – Non ricordo … sarà stato nel 1953. Poi anche Zamperoni fece una storia. Lui disegnava la matita e poi io finivo. Ma sono cose saltuarie, quelle. Chi mi ha dato proprio un aiuto fattivo sono stati i cugini Gamba, specialmente Francesco. In un secondo tempo è subentrato Muzzi …
    B – Che disegna tutt’ora, se non sbaglio? …
    G – Non so. Credo che in questo momento si interessa di altro, è passato a un altro tipo di disegno. Però lui non riusciva a fare bene le teste di Tex, sa, ognuno ha un suo stile. Se io dovessi fare cose di un altro, mi troverei in imbarazzo. Allora lui lasciava in bianco le teste di Tex e gliele facevo io. Muzzi mi ha aiutato parecchio. A quel tempo lì, usciva ancora il libretto settimanale, mentre quello grosso era invece una ristampa. Poi Sergio Bonelli si è accorto che andava meglio quello grande e un bel giorno ha deciso e mi ha chiesto: “Galleppini, vogliamo chiudere quelle piccole e continuare invece quello grosso. Tu permetti che facciamo fare delle storie ad altri disegnatori”? e io non ho avuto niente in contrario e gli ho detto di sì.
    B – Poiché lei, in sostanza non ce l’avrebbe fatta più.
    G - Beh, sì, fare un albo di quelli grandi, 114 pagine ogni mese, erano troppe e allora ecco che subentrò Nicolò, poi Letteri, Muzzi, poi Ticci che è entrato in un secondo tempo con delle buone storie e Ticci è stato per me uno dei migliori, specialmente come disegno moderno e poi adesso uno degli ultimi è stato Fusco. Allora siamo in questo momento, io, Nicolò, Letteri, Ticci, Fusco.
    B – E pressappoco vi spartite in uguali quantità il lavoro?
    G – Io credo di sì. Sergio cerca di non far mancare i soggetti a nessuno.
    B – Insomma disegnate un paio di albi all’anno per ciascuno.
    G – Sì, pressappoco. Io in un primo momento ne disegnavo un po’ di più, ma dopo che ho avuto la disgrazia due/tre anni fa di avere una retinite all’occhio sinistro da cui vedo poco o niente, sa, con un occhio solo non si disegna più con quella sveltezza. Poi è subentrato, insieme alle cure per l’occhio, una nevrosi che mi fa tremare le mani. Forse sarà l’età, e quindi ho avuto un calo …
    B – Dovendosi interessare così sul West, a un certo momento ha anche cominciato a documentarsi?
    G – Ah, sì, sì. Dove non arrivavo a documentarmi io, mi mandava Sergio. Ho dovuto documentarmi sì. Quando è uscito quel libro di Gattia “Come sparavano i nostri”, mi sono vergognato di tutti quei fucili e quelle pistole che avevo disegnate in precedenza perché finalmente ho capito come era fatto un Winchester.
    B – Alarico Gattia è un grosso appassionato di armi. Ho visto un suo libro vorrei dire scientifico.
    G – Sì, sì quel libro lì mi ha aiutato parecchio a capire e mi son comprato anche dei modellini, cosa che magari avrei dovuto fare subito …
    B – Se avesse avuto il tempo, e se la cosa fosse stata impostata a suo tempo. E in questa sua, diciamo, nuova conoscenza col West, Lei lo avrebbe anche cambiato. Lei lo sentirebbe diverso.
    G – Ah, sì senz’altro. Lo adatterei ai tempi nostri.
    B – Lei segue anche il cinema?
    G – Beh, sì, prima ci andavo molto ma adesso purtroppo non ci posso andare tanto per il fatto della vista, perché se c’è un fatto che mi irrita molto la vista è il cinema lì al buio. Il fatto è che ho perso anche la luminosità.
    B – E quindi quelle opere cinematografiche del West all’italiana, quella nuova impostazione del West venuta alla ribalta una decina di anni fa, lei come la vede?
    G – Beh, guardi … io sono rimasto – forse è per la mia età – al West classico dei John Ford, John Wayne, Gary Cooper, quelli insomma erano i western che mi piacevano. Ma quella all’italiana è una moda che va bene adesso. Certo, da quello che ho letto, ho visto che non era quello il West. Il Winchester, per esempio, ho letto che non era poi quel gran fucile così perfetto, si inceppava. Il fucile vero e proprio che usavano loro era la lupara, la doppietta …
    B – Sì, c’è tutta una mitizzazione …
    G – Bisognerebbe sfatarle di nuovo. E’ stato Albertarelli che un po’ ha ridimensionato quel che era il West. Quei famosi eroi, non erano tanto eroi, come si credeva, magari i veri eroi sono rimasti sconosciuti alla storia. D’altra parte questo è anche un fenomeno di massa, di spettacolo, quindi bisogna anche creare.
    B – Fare delle cose nuove per continuare ad accalappiare la gente.
    G – Beh, io nel mio indirizzo sono stato sempre un romantico. Per me ciò che è cinema, storia, racconto, bisogna metterci anche molta fantasia. Quando facevo il pittore, io cambiavo un po’ la natura.
    B – D’altra parte è questo che deve fare il pittore, in fin dei conti.
    G – Eh, sì. Bisogna mettere un po’ di fantasia, perché anche il cinema è andato talmente nel reale, che a un certo punto non sono più films ma documentari, tanto è vero che ha allontanato molta gente. Perché ora è un cinema ristretto, diciamo di competenti, prima si andava al cinema per vedere lo spettacolo, per svagarsi e non era poi male e quindi anche il cinema che ha nominato lei, il Western all’italiana è servito a far correre spettatori a svagarsi un pochettino. Lo accettiamo anche così, quel Western all’italiana, il Western degli spaghetti.
    B – Torniamo al suo Tex, che in pratica lo ha preso per il collo e non le ha lasciato più una gran libertà. Da allora, oltre al Tex, come fumetto cosa ha continuato a fare?

    G – Quasi niente! In fatto di disegno, quasi niente. Ho fatto una storia una volta per l’Intrepido, perché mi hanno pregato. Ho fatto quella e non ho fatto altro. No, tutto quello che ho fatto è per i Bonelli. Sì, ho fatto nei primi tempi dei libri di Pinocchio e “I viaggi di Gulliver” a fumetti. Era un Pinocchio che avevo già fatto per Nerbini e l’ho rifatto per loro. Poi ho sempre fatto Tex. Sergio mi ha fatto fare tanti di quei cartelloni, che poi non so perché, o perché li ho fatti male e non gli son piaciuti o proprio per farmi sfogare perché io gli dicevo che il Tex mi aveva chiuso e allora me li faceva fare, me li pagava anche bene, però non li ho mai visti tutti stampati! Comunque il mio desiderio di fare qualcosa di buono e di diverso è stato riscattato con il libro a fumetti “L’uomo del West” che sarà stampato in settembre.



    B – Però quel Pinocchio lo ricordo. E, al proposito nei primissimi Tex, c’era qualche striscetta umoristica in fondo alle didascalie …
    G – Ma sì, era uno sfogo, anche quello, personale.



    B – Cioè, a lei sarebbe piaciuto fare il disegno umoristico?
    G – Sì, era il mio sogno. Anzi ritorniamo indietro, agli inizi. Io sono partito per fare i cartoni animati. Infatti i miei primi lavori stampati, riprodotti, sono dei filmetti per un giocattolo che si chiamava disgraziatamente “CineDux”. Tanto è vero che qualcuno che ha voluto scrivere la mia biografia leggendo “filmetti CineDux”, questo Dux ha pensato che fosse il Duce, invece era un Cine-giocattolo e non so perché gli abbiano dato quel nome lì. Quei filmetti erano le favole più conosciute come Cappuccetto Rosso, sa, che io disegnavo con uno stile da cartone animato.
    B – E dove le disegnava, su carta?
    G – No, la tecnica per disegnarli era su carta lucida, perché si trattava di fare due disegni perché il movimento era a due tempi. Uno in una posizione e l’altro in un’altra posizione. Allora, io speravo di lavorare sui cartoni animati, però in Italia non c’era nessuno che li facesse. Poi per necessità son passato ai giuornali perché coi cartoni animati non c’era niente da fare. Sono ritornato all’idea dei cartoni animati in quel periodo che mi avevano congedato, perché per quell’intervallo avevo avuto la lettera, che ho ancora di assunzione dalla IMA FILM di Domenghini che doveva fare la Rosa di Bagdad. Io dovevo entrare nello staff, ero stato assunto, mi avevano fatto fare i provini, tutto quanto, e mi era arrivata la lettera di assunzione, diceva che dovevo andare a Milano e incominciare ed ero come “disegnatore-base”. Però assieme a quella lettera famosa, non ricordo ora se il giorno dopo, è arrivata la cartolina di richiamo e mi è andata buca ed era l’unica volta che sarei riuscito a fare dei cartoni animati, finalmente …
    B – il suo ruolo lo ha assunto forse Zamperoni? C’era lui, c’era Libico Maraja …
    G – Zamperoni sì. Io purtroppo son dovuto ritornare a Cagliari a decorare gli spacci … Ho fatto anche una cartolina per l’aeronautica, mi hanno sfruttato anche lì.
    B – E quindi questo suo piacere del disegno umoristico è rimasto in sostanza un piacere suo segreto.
    G – Sì, infatti, ce l’avevo nel sangue e ho lavorato anche per generi umoristici. Uno di questi era la satira politica sul “420”. Il povero Toppi, che faceva la vignetta centrale, era morto e allora l’han data a me. Ma era un lavoro poco piacevole, perché era talmente politico, anche troppo. Poi i soggetti non li facevo io, li faceva un altro, insomma erano cose sballate. Pensi che avevamo fatto una vignetta che dicevamo che a El Alamein hanno bussato, hanno bussato ma non hanno sfondato. Proprio la notte arriva il comunicato che diceva che avevano sfondato ed erano ad El Alamein. Era tutta una propaganda fasulla. Io dovevo disegnare tanti di quei sommergibili e aeroplani che bombardavano le navi della croce rossa. Chissà se era vero.
    B – Cosa vuole, quelle erano le veline del regime.
    G – Non sapevamo dove era il vero e dove la falsità! Io mi sono reso conto, guardi, che noi avevamo il cervello lavato. Voi siete giovani e non avete vissuto quel momento lì. Io ho cominciato dal balilla (il figlio della lupa ancora non c’era), l’avanguardista, la premilitare, ho fatto tutto ed eravamo di quelli che credevano veramente ai 40 milioni di baionette.



    B – Torniamo ora ai suoi diletti cartoni animati mai fatti.
    G – Beh, adesso ho parlato troppo, guardiamo ai fatti. Guardi, questi sono i miei primi disegni, quelli che ho potuto salvare.
    B – Questo dimostra che lei l’ha sempre conservata, lei è sempre stato, un pignolo conservatore?
    G – No, no, non ho conservato niente, ho distrutto tutto, questi li ha salvati mia sorella e i miei genitori, che a un certo punto son diventati i miei primi tifosi. Loro hanno comprato i giornaletti, perché io non avevo più niente.
    B – Ma questi originali, per esempio, come sono stati recuperati?



    G – Devono essere degli originali di scarto che non mi hanno pubblicato, e si vede che mia sorella e mia mamma li han conservati e son rimasti. Ma qui ci sono quei famosi filmetti che le dicevo, appunto i primi lavori, ecco, ora le faccio vedere. Guardi che ero ragazzo quando facevo questi, sono di quando avevo 10 (sic, ma dovrebbe essere 20) anni c’è una tendenza satirica, c’è qui un segno molto essenziale. Sono del 1937. Fra l’altro, io in quel periodo lì avevo anche inventato un occhialino per vedere i giornali in movimento e l’ho brevettato. Solo che anche lì mi han fatto il contratto fasullo. Lavoravo per un certo Sassoli che era un rappresentante in Italia di questa cinematografia che mi aveva accalappiato con un contratto fasullo anche quello lì, perché io ero minorenne, ragazzo, avevano fatto firmare anche mio padre, mi ricordo, e l’occhialino è stato sì brevettato a mio nome da questo signore, però si è preso tutta l’esclusiva lui, e poi non ha fatto più niente.
    B – Com’era concepito questo occhialino?
    G – Era per vedere dei disegni in movimento nei giornalini. L’occhialino aveva un occhio con celluloide rossa e l’altro con celluloide verde. Il disegno, che era stampato in due colori, permetteva così di vedere le due immagini distinte, che sovrapponendosi davano l’impressione del rilievo.
    B – Ah, sì, ricordo anch’io che negli anni cinquanta certi giornali adottavano questo principio di stampa per certe immagini curiose …
    G – Esatto, vede, la cosa era mia, solo che non l’avevo realizzata io. L’hanno realizzata male però, tant’è vero che la cosa è andata a finir male. Ecco, quello l’avevo inventato io nel 1936!
    B – E non ha avuto l’idea di far causa a coloro che l’avevano truffato in quel modo?
    G – Sì, l’ho avuta, ma cosa vuole, come si fa con gente del genere, piena di soldi, noi poveri diavoli, ci vorrebbe una barca di milioni! Quindi ho lasciato perdere!
    B - La buggeratura, ha preso …
    G – Proprio così! Ha, ha, ha ! (ci ride sopra con spirito)
    B – Senta Galleppini, lasciamo da parte queste … tristezze, e veniamo – torniamo, anzi – al Galleppini uomo. Lei ci ha dimostrato che in sostanza il suo lavoro la assorbe molto. Non ha per caso qualche hobby per rilassarsi un po’?

    G – Dunque, guardi, io come hobby ho i trenini elettrici e la fotografia …
    B – I trenini, da quand’è che li coltiva, diciamo così?
    G – Da quando è nato mio figlio. Cioè, da sempre credo. Fin da quando lui era piccolino. Siccome io non li ho mai potuti avere allora son cresciuto con questo … “complesso”, diciamo. Sicché quando è nato mio figlio la prima cosa che ho fatto è stata quella di correre a comperargli un trenino elettrico! Ecco, vede, ho anche dei plastici grandi.
    B – E continua tuttora a coltivare quest’hobby?
    G – Sì. Sì, sì, nei momenti, così nei rari momenti di libertà, allora vado giù … Ce li ho in garage, i due plastici.
    B – E cosa fa? Ingrandisce sempre più i plastici stessi?
    G – No, no, li modifico. Anzi a volte li distruggo e poi li rifaccio diversi. Adesso che ho avuto questo guaio alla vista ci vado molto meno, giù. Ma sa, son tutto felice quando mi si guasta qualche cosa, perché allora ho l’occasione per impegnarmi in un certo modo. Sa, in fondo, non è che uno si mette lì a giocare con i trenini, è un modo per rilassarsi. Tant’è vero che quando uno ha finito il plastico, addio, è finito anche il divertimento. Però sa, se si guasta, allora lei deve smontare quel tale semaforo, cambiare il binario … Il divertimento è tutto lì, è uno svago …



    B – e per quel che riguarda la fotografia?
    G – La fotografia, guardi, è stato da militare. Siccome lì mi avevano messo all’autoreparto, vi conobbi uno che era degli specialisti fotografi, allora mi sono appassionato alla fotografia, e adesso sviluppo io, stampo io … Però con una certa passione.
    B – e come fotografo, che tipo di soggetti preferisce?
    G – Paesaggi, persone, un po’ di tutto non ho preferenze.



    B – E fotografie sperimentali?
    G – Sì, anche quelle. Foto solarizzate, ad esempio, dettagli, cose di questo genere, sì sì.
    B – E di queste foto, si serve poi anche quando si tratta di disegnare? Oppure l’hobby rimane hobby e non viene mai mescolato col lavoro?
    G – No, guardi, per quello ho dei modellini, oppure mi costruisco dei modellini e poi magari lo fotografo. Li fotografo in diverse posizioni, e di quelle mi servo poi per i fumetti. Quindi no, non me ne servo professionalmente, perché la fotografia mi piace così, come hobby autonomo. Che del resto mi ha dato anche delle soddisfazioni.



    B – E ora un’ultima curiosità, Galleppini. Quello pseudonimo Galep, come e quando è venuto fuori?

    G –A Firenze, è venuto fuori, per via dell’affare della firma. Questo Galleppini era veramente troppo lungo, poi avevo abbreviato Gal e poi infine è stata la padrona, lì, della pensione dove vivevo allora, una persona un po’ intellettuale, che mi ha consigliato di firmare Galep. E quello è stato un guaio, anche se un buon pseudonimo, perché molti scrivono Galleppini con una sola L e siccome Galeppini con una L sola ce n’è parecchi anche qui in Liguria, allora molti fanno confusione, addirittura mi confondono con un famoso avvocato che c’è qui. Invece Galleppini con due L e due P è rarissimo, non credo che ce ne siano in giro. Iop ho l’araldica … Sa, non lo dovrei dire, ma con l’araldica ho potuto riscontrare che un Galleppini è stato allievo – si figuri un po’! – nientemeno che del Guercino!
    B – Ah! Allora è una dote di famiglia! Chissà se anche lui a suo tempo ha fatto i fumetti! Magari, chissà, avrà affrescato qualche stanza coi disegni dell’Orlando Furioso …
    G – Sì, sì era un bravo, però credo che sia morto ucciso, ammazzato … Sa, a quei tempi mica si scherzava, si faceva sul serio … Ha, ha, ha! ( e ci sorride ancora, con spirito).
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