Premio Nobel 2020 a Louise Glück, un’erede di Emily Dickinson

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    Premio Nobel 2020 a Louise Glück, un’erede di Emily Dickinson

    Figlia di ebrei ungheresi, nata a New York nel 1943, appartiene a una tradizione americana che arriva fino a Sylvia Plath e alla cosiddetta «poesia confessionale»




    Forse quest’anno il Premio Nobel per la letteratura non farà troppo discutere. Non così tanto, almeno, come in anni recenti è accaduto con l’incoronazione di Bob Dylan o di Peter Handke. La poetessa americana Louise Glück è infatti per molte ragioni una scelta sicura, di qualità, e in quanto tale difficilmente contestabile. Certo non era nella prima fila dei cosiddetti favoriti ma nemmeno nelle retrovie. E non è stata neppure una specie di scoperta, come accadde invece nel 1996, caso fortunatissimo, con Wisława Szymborska. Del resto l’Accademia di Svezia conferma una volta di più la sua regola, che è quella di smentire infallibilmente i pronostici, mostrandosi più imprevedibile di qualsiasi cimento sportivo.

    In ogni caso, quest’assegnazione cade sulle spalle di un’autrice strutturata e forte, da tempo molto apprezzata in patria e all’estero, e non a caso in possesso di un cursus honorum praticamente perfetto, dal Premio Pulitzer per la poesia (1993), al National Book Award (2014), alla nomina a poeta laureato degli Stati Uniti nel 2003. Da questo punto di vista il Premio Nobel arriva come un autentico coronamento e insieme come un ultimo atto, perché dopo questa consacrazione non resterà che tornare, o magari avvicinarsi per la prima volta, alla sua poesia per verificarne la qualità, la presa, l’efficacia reali.

    Del resto, la domanda di circostanza è sempre la stessa: l’opera della scrittrice o dello scrittore designato giustifica davvero le luci di una tale ribalta planetaria? Così ogni anno ci si ritrova davanti a questa strana situazione, che sostanzialmente ha in sé qualcosa d’innaturale. La letteratura, e tanto più la letteratura di valore, nasce infatti all’oscuro, in solitudine, nel fango; costa fatica, ansia, tormento interiore. E il fatto stesso di trovarsi all’improvviso sotto i riflettori la fa sempre un po’ apparire come fosse in una casa non sua.

    E proprio la solitudine, l’isolamento, che è quello del singolo individuo disperso nella storia e nella società, ma con risvolti cosmici o metafisici, per un lettore italiano in qualche misura leopardiani (la Natura matrigna), costituisce il motivo centrale della poesia di Louise Glück. Se pensiamo proprio a Wisława Szymborska e a quella vocazione alla gioia, a quella leggerezza e lietezza malgrado e contro tutto, di cui la poetessa polacca aveva fatto un’autentica bandiera, non c’è dubbio che ci troviamo adesso su un versante praticamente opposto. C’è ad esempio un poesia indirizzata dalla scrittrice al proprio innamorato, ma dal capolinea di una relazione finita male, in cui ammette che l’amore per la terra, l’energia, la vitalità, non fanno comunque parte della sua (di lei) natura. Ed è a partire da questa situazione fondamentale che va compresa la sua poesia: i suoi sforzi di comprensione e d’intesa, le sue analisi, i suoi giudizi, il tentativo sempre rinnovato di farsi sorprendere dalla realtà e di trovare il proprio posto, e senso, nella vita.

    È dunque una poetessa dura, tenace e poco conciliante Louise Glück. E non perché non possieda una benevolenza e un sentimento di partecipazione per il comune destino degli esseri umani.

    Piuttosto, a fronte dell’ostilità delle cose e di un’esistenza che, comunque vada, resta di per sé difficile, con le sue poesie non intende mai cucinare ricette scontate o offrire soluzioni prevedibili. Meglio ancora: non intende proporre facili scorciatoie o vie di fuga. Del resto, non è semplice nemmeno la sua poesia. E non per qualche forma d’oscurità espressiva o di densità metaforica. Al contrario, proprio l’immediatezza, la qualità quasi confidenziale del discorso poetico (è uno di quei poeti nei quali si sente la voce che parla) costituisce il punto di forza della sua poesia. Dunque si tratta di una difficoltà diversa, di natura concettuale, conoscitiva. Questi versi pretendono un lettore paziente e intelligente, vale a dire capace di comprendere come la messa in forma di parole della vita — i rapporti umani, la famiglia, le relazioni di coppia, le percezioni e la sensibilità, il corpo, l’osservazione della natura, il dialogo con il creato — comportino sempre una conoscenza profonda, una meditazione, e una risposta.

    Massimo Bacigalupo, che è il suo più importante interprete e traduttore italiano (dopo un numero della rivista «Poesia» dedicato principalmente alla scrittrice americana nel marzo del 2003, ha curato e tradotto integralmente le due raccolte L’iris selvatico e Averno, rispettivamente nel 2003 per Giano e 2019 per Dante & Descartes), ha riconosciuto come proprio l’«infallibile tono colloquiale» costituisce il marchio di fabbrica della sua poesia. Ma proprio questo tono, poi, la ricollega a un tratto distintivo della tradizione poetica statunitense in cui Glück mostra di avere il proprio retaggio, da Emily Dickinson a Wallace Stevens, fino a Sylvia Plath e Robert Lowell.

    Per avvicinarsi a questa poesia, si potrebbe cominciare proprio da L’iris selvatico, che uscita negli Stati Uniti nel 1992 costituisce la sua raccolta forse più apprezzata (qui l’articolo di Mario Andrea Rigoni).

    Si tratta di una sorta di sinfonia poetica che racconta di un periodo trascorso dalla scrittrice col figlio in una casa del Vermont, nel nord-est degli Stati Uniti, una casa corredata da un giardino. Il periodo è tra la fine della primavera e la fine dell’estate: quello dunque del rigoglio della natura, degli alberi, delle erbe e dei fiori. E in molte di queste poesie sono proprio i giorni, alla lettera, a parlare di sé, a raccontare alla scrittrice e a noi le loro pene e le loro gioie, i loro sogni. Altre volte parla invece la poetessa, altre ancora perfino Dio. Ma è sempre e comunque il giardino, è il mondo creato il protagonista delle poesie. E questo mondo, che non è facile, va non solo amato ma curato, proprio come fa qui il poeta giardiniere della vita e delle parole, con la sua passione, la sua giustizia e appunto la sua cura. Come accade nei versi che seguono (la traduzione è di Bacigalupo):

    «Nel giardino, nella pioviggine
    la giovane coppia che pianta
    un solco di piselli, come se
    nessuno l’avesse mai fatto prima,
    le grandi difficoltà non fossero mai state
    affrontate e risolte».


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